economia

Quanto ci costa uscire dall’euro? 80 miliardi. All’anno.

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Discuto spesso di costi e benefici dell’euro, e nel farlo ho sempre mantenuto una posizione molto favorevole. Mi fanno molta tenerezza coloro che si improvvisano esperti di questi temi: tanto per mettere le carte in tavola, nell’ormai lontano 1998 mi sono laureato in scienza delle finanze con una tesi sulla politica di stabilizzazione fiscale nell’Unione Monetaria Europea, quando molti dei sedicenti esperti di euro facevano tutt’altro.

Il principale rischio a proposito di ogni tema di politica economica –e l’euro non fa eccezione, anzi- è che le discussioni intorno ad esso siano avvelenate dal populismo, cioè da una trattazione emotiva, “di pancia”, della questione.

Non vi è dubbio che la performance in termini di crescita del Pil per i paesi periferici dell’Eurozona sia molto negativa, e in particolare lo è stata per l’Italia. Chi auspica l’uscita dell’Italia dall’euro crede, e spera, che le svalutazioni competitive del tasso di cambio possano compensare una dinamica fallimentare della produttività, rendendo nel breve-medio termine i prodotti e servizi italiani più appetibili sui mercati internazionali. Un’altra speranza -detta a voce più bassa- è che la riagguantata sovranità monetaria renda meno gravoso il problema del debito pubblico, attraverso un periodo lungo di tassi di inflazione più elevati, possibilmente ottenuti attraverso gli acquisti diretti dei titoli stessi da parte della banca centrale.

Mettiamo le cose in chiaro: non esiste evidenza empirica forte a favore della tesi che tassi di cambio flessibili producano esiti migliori di tassi di cambio fissi. Anzi: un recente lavoro di Andrew Rose della Haas School of Business di Berkeley mostra come la performance macroeconomica di paesi che tengono fisso il tasso di cambio non sia né peggiore né migliore rispetto a quella di paesi che lasciano fluttuare il cambio, ma comunque fanno “inflation targeting”, cioè hanno banche centrali che si fissano un obiettivo a medio termine sul tasso di inflazione. Al contrario, Rose mostra come un regime di politica monetaria che lascia i tassi di cambio fluttuare e non si impegna sull’inflazione (come sembra piacere a molti dei fan dell’uscita dall’euro) risulti essere una scelta economicamente peggiore delle altre due.

Il lato dei benefici non pare dunque caratterizzato da una montagna di guadagni che ci aspettano succulenti. Dall’altro lato, nessuno può escludere che i costi dell’uscita dell’Italia dall’euro siano proibitivi, e comunque immersi in una densa nebbia di incertezza. La ragione è presto detta: come discusso da Barry Eichengreen, ai costi operativi per se stessi (soprattutto la stampa delle nuove banconote e il riadattamento dei sistemi informativi), bisogna sommare i costi e i rischi di carattere finanziario.

Il problema non sta nei rapporti di credito e debito tra soggetti italiani, che con la reintroduzione della lira verrebbero riconvertiti nella nuova valuta. Il problema sta invece nei rapporti di debito con controparti straniere, che non sarebbero esattamente felici di farsi ripagare “uno a uno” con lire svalutate di almeno il 25/30 percento rispetto all’euro: come minimo vi sarebbe un ingente contenzioso da dirimere, avendo perlomeno deciso quale sia il foro di competenza. Ammettiamo pure che tutte le controparti accettino di farsi pagare uno a uno in lire (impossibile): che cosa accadrà ai rapporti di debito futuro? Qualsiasi investitore minimamente accorto richiederà un tasso di interesse che incorpora il rischio di svalutazione futura delle nuove lire, rischio che è tanto più elevato quanto più ci si aspetta un tasso di inflazione italiano alto. Chi spera nella sovranità monetaria per uccidere il debito pubblico con l’inflazione si ritroverà con i tassi di interesse gonfiati dall’inflazione stessa.

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C’è poi il tema della stabilità finanziaria, cioè delle banche. Poiché la moneta unica resta in vigore in altri paesi, ogni sospetto di uscita dell’Italia dall’euro non può che indurre cittadini razionali a detenere il livello minimo di depositi bancari in euro, esattamente per minimizzare la perdita dovuta alla trasformazione di questi nella nuova lira svalutata. In che modo posso ottenere ciò? Una maniera relativamente raffinata consiste nel comprare titoli in altra valuta, mentre una maniera più drastica consiste nel correre al proprio sportello bancario e ritirare i depositi. Quale banca può sopravvivere a una più o meno raffinata corsa agli sportelli? Quali sono gli effetti economici di fallimenti bancari di massa? Chi propone l’uscita dall’euro come panacea di ogni male è molto silenzioso sul punto.

Bisogna poi tenere presente che questi rischi di stabilità sono ancora maggiori qualora la procedura di uscita dall’euro avvenga in termini palesi, “alla grillina”, con un referendum che funziona da segnale di partenza alla corsa agli sportelli medesima.

Quanto può dunque costare l’uscita dell’Italia dall’euro? Proviamo a ragionare sulle cifre, tenendo presente come ogni esercizio di questo tipo non può che basarsi su valutazioni soggettive dei dati. Nel 1993 la divisione della Cecoslovacchia tra Slovacchia e Repubblica Ceca ha portato alla dissoluzione della loro moneta: la parte economicamente più debole, cioè la Slovacchia, ha visto nel 1993 il suo Pil diminuire del 4 percento. Che dire dell’Italia? Nel 2015 Il Pil reale italiano (utilizzando i prezzi del 2010) era pari a 1554 miliardi di euro (vedi qui): nei tempi recenti la recessione annua peggiore si è avuta tra il 2008 e il 2009, con una caduta in termini reali maggiore del 5 percento. Una stima intermedia dei costi dell’uscita dell’Italia dall’euro potrebbe essere di 80 miliardi di euro, cioè all’incirca il 5 percento del Pil. Si badi bene: se non ci fosse nessuna accelerazione nel tasso di crescita del Pil italiano in caso di uscita dall’euro rispetto all’ipotesi alternativa di permanenza, si tratterebbe di un costo annuale, naturalmente scontato a oggi per gli anni successivi al primo. Coloro che propongono eurexit come panacea per i mali italiani dovrebbero spiegarci per quale ragione il tasso di crescita della nostra economia dovrebbe accelerare in maniera permanente dopo l’uscita dall’euro.

L’incertezza sui costi è sovrana: le cose potrebbero andare peggio, o meglio. Una stima pessimistica dei costi è di 120 miliardi di euro (cioè il 7,5 percento del Pil), la quale diventa più plausibile quanto maggiori i costi finanziari dell’operazione dal lato dei fallimenti bancari. Anche se le cose andassero meglio, è difficile pensare a stime più ottimistiche di un 2,5 percento di Pil, cioè un costo di 40 miliardi. Dall’altro lato, costi pari al 10/20 percento del Pil (150/300 miliardi), come quelli suggeriti da Nicolas Baverez su Le Point per la Francia mi sembrano francamente eccessivi nella loro drammaticità, in quanto slegati da precedenti comparabili.

Anche dopo avere sgombrato il campo da scenari apocalittici, il punto resta: perché sobbarcarci questi rischi di fronte a un beneficio scarso e incerto? Non è il tasso di cambio che ci regala la crescita economica.

 

Per chi vuole saperne di più:

  • B. Eichengreen [2010]. “The Breakup of the Euro Area.” In A. Alesina e F. Giavazzi (ed.): Europe and the Euro. Chicago, Chicago University Press. Disponibile qui: http://www.nber.org/chapters/c11654.pdf

 

 

 

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11 pensieri riguardo “Quanto ci costa uscire dall’euro? 80 miliardi. All’anno.

  1. 1) nel 2008-2009 è crollato del 5% il PIL di mezzo mondo e di mezza eurozona causa essenzialmente un crollo della crescita del credito in EU ad es da +12% medio annuo pre 2008 a -5% nel 2009. Cosa c’entra l’uscita dall’Euro dell’Italia con una criisi finanziaria globale ? La stima degli 80 mld viene da un -5% di PIL calcolato usando un crollo del Pil globale dovuto a crisi finanziaria che ha affondato il commercio estero di mezzo mondo. Dov’è la logica nell’usarlo per calcolare un effetto sull’italia del ritornare ad avere la propria Banca Centrale ?

    2) Se esci dall’euro ritorni ad avere il controllo della Banca Centrale come tutti i paesi del mondo fuori dalla UE e come tutti i paesi civili hanno sempre avuto (salvo annessioni o conquiste militari) Di consegugenza Bankitalia può comprare lei 200 mld di crediti marci come hanno fatto in USA, Giappone, Cina, UK…nel 2009 ripulendo le banche italiane e consentendo loro di tornare a fare credito. Come dimostra appunto l’esempio del 2008-2009 nel mondo è la violenta contrazione del credito e quindi del denaro che circola che crea una depressione

    3) Se esci dall’euro e ritorni ad avere il controllo della Banca Centrale puoi ricomprare i BTP (circa 1,400 mld-200 mld circa già ricomprati = 1,200 mld) con un QE all’infinito che ricompri (come succede con quello di DraghI) 150 mld l’anno di BTP. Come del resto fa ill Giappone il quale per chi non lo sapesse ha un surplus estero quasi uguale a quello dell’Italia per cui se lo fanno loro possiamo farlo anche noi. E se Bankitalia fa un QE di 150 mld l’anno elimina il ricatto della spread e del debito pubblico e libera risorse per ridurre le tasse

    4) che la Lira si svaluti anche del -40% contro Marco è pacifico, ma che si svaluti contro Dollaro, Yen,Yuan,Sterlina e il resto delle altre valute dipende dai flussi di capitale (leggi speculazione) che ad es nel 2016 hanno fatto rivalutare del 15-20% rublo,rand e real, tanto per dire che sono disconnessi dalla performance economica di un paese come sa chi abbia a che fare con il mercato dei cambi. Con i tassi a zero o vicini a zero nel mondo di oggi una paese che offra rendimenti anche solo del 2% attira capitali (persino Russia,Brasile,Sudafrica li attirano !). L’unica condizione è che non abbia deficit esteri cronici, ma l’Italia ha un surplus estero, a parte il 2005-2011 lo ha quasi sempre avuto dal dopoguerra e con una svalutazione del -40% sul marco e nord-europa probabilmente aumenta

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    1. Bravo Riccardo avresti potuto aggiungere che l’Italia quasi ando’ in bancarotta nel 1992 quando non faceva parte dell’Euro, quando aveva controllo della banca centrale, e quando poteva svalutare come voleva. Vito Tanzi

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      1. Vorrei ricordare alcuni dettagli che vengono puntualmente tralasciati quando si parla della svalutazione del ’92.

        1. Innanzi tutto nel ’92 l’Italia NON andó in bancarotta, infatti nessuno dichiarò default.

        2. Secondo, nel ’92 avevamo la lira ma eravamo in regime di cambio fisso nello SME che era al prova generale dell’euro. Come finì quell’esperienza avrebbe dovuto essere di monito a chi voleva entrare nell’euro.

        3. Terzo, quando uscimmo dallo SME e svalutammo, non ci fu la morte dei primogeniti e non piovve zolfo. Anzi, Repubblica uscì con una intervista in cui un certo Mario Monti diceva che “La svalutazione ci ha fatto bene!”
        https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/09/12/la-svalutazione-ci-ha-fatto-bene.html

        4. Quarto, nel ’92 l’Italia era in deficit di partite correnti e aveva necessità di capitali esteri per finanziarsi, oggi è in surplus e non ha tale necessità.

        5. Quinto, dal ’92 al ’96 l’economia italiana conobbe un rinascimento. Poi arrivò Prodi con politiche deflazionistiche che rivalutarono la Lira (“Dobbiamo entrare in europa!”) e da quel momento l’indice di produttività italiano ha smesso di crescere.

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  2. Articolo interessante .
    In primis però vorrei dire una cosa sulla sua definizione, connotata a me pare, piuttosto negativamente di populismo . Questo infatti è un movimento riconducibile a una rappresentazione idealizzata del popolo e a un’esaltazione di quest’ultimo, come portatore di istanze e “valori positivi” (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti e la corruzione delle élite.
    Si diventa populista quando si capisce di avere a che fare con una classe politica e dirigente incapace a risolvere i problemi del vivere comune.
    In secondo luogo, vorrei segnalare il fatto che oggi la Sovranità Monetaria è dello Stato italiano, che infatti percepisce il signoraggio sia sulle monete metalliche che sulle banconote ( come scritto da BCE e Banca d’Italia).
    Nel 2015, la Banca d ‘Italia ha versato allo Stato circa 3 miliardi di euro.
    La politica monetaria è stata invece purtroppo ceduta alla BCE, che è però cosa diversa dall’aver ceduto la Sovranità Monetaria.
    Lo scopo dell’uscita dall’euro NON è la possibilità di svalutare il cambio per esportare di più. Ma consiste nel tornare a controllare la politica monetaria e controllare DIRETTAMENTE il sistema bancario.
    Oggi lo Stato italiano ha la possibilità di mettere in circolo nuova moneta nell’economia reale, direttamente nelle tasche dei cittadini, attraverso almeno 4 differenti tipologie di strumenti, senza violare i Trattati od uscire dall’Euro:
    1 – emissione di monete metalliche di valore superiore a 2 euro;
    2 – emissione di biglietti di Stato;
    3 – emissione di certificati di riduzione erariale;
    4 – creazione di moneta elettronica.
    Il problema della crisi non è l’euro in sé, ma il fatto che attraverso la moneta comune si è impedito agli stati di creare moneta (senza debito) a vantaggio del sistema bancario che invece crea moneta a debito attraverso i prestiti.

    Il resto conta meno, compreso euro si od euro no che tanto appassiona.

    Domanda : ma perché un Governo che persegue l’interesse nazionale non dovrebbe creare moneta, vista la scarsità della stessa nell’economia reale (siamo in deflazione), con oltre 3 milioni di disoccupati, 13 milioni di inattivi e sottoutilizzazione degli impianti e dovendo far fronte a catastrofi come quella che ha colpito il centro Italia?

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  3. Al di là dell’esercizio accademico di Rose mi chiedo: ha senso paragorare le economie di Bielorussia, Mauritania, Slovacchia eccetera con quella Italiana? E se si perché?

    Per quanto riguarda Giavazzi e i rischi finanziari derivanti dall’uscita dall’Euro mi sembra si debba aggiornare la sua posizione con le sue recenti idee riguardo i rischi finanziari della permanenza dell’Italia nell’Euro (vedi suo articolo sul Corriere della Sera del 2 ottobre).

    Va aggiunto che chi vorrebbe uscire dalla moneta unica prevede che la Banca d’Italia dovrebbe diventare prestatore di ultima istanza calmierando l’interesse sul debito.

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