economia

Qui smonto un articolo di Bagnai (su tassi di cambio e produttività)

Al divulgatore e profeta anti-euro Alberto Bagnai piace far credere di avere dimostrato in maniera inconfutabile le tesi che piacciono a lui, e in particolare quella secondo cui i tassi di cambio fissi -e dunque l’euro- hanno danneggiato la produttività del sistema economico italiano.

Il trucchetto retorico è divertente anche se “già sentito”: in uno dei suoi non brevissimi pezzi sul sito Goofynomics (per gli amici: “il Sacro Blogghe”) -più precisamente in un post del 12 marzo– Bagnai commenta l’andamento pressoché piatto della produttività del lavoro italiana negli ultimi vent’anni in questa guisa:

l’unica cosa che cresce a una cifra fra il 1995 e il 2016 è la nostra produttività (i motivi li abbiamo spiegati qui, e con peer review qui).

La parolina magica! Peer review! Finalmente trovo un articolo “visionato da pari”, cioè pubblicato su una rivista dopo che è stato vagliato da esperti della materia (“da pari”) per verificarne il valore e chiedere eventuali modificazioni prima della pubblicazione stessa. Dal mio ufficio in università riesco finalmente a mettere le mani sul pdf dell’articolo, pubblicato sulla International Review of Applied Economics.

Partiamo da quello che Bagnai vorrebbe far credere di aver dimostrato:

  1. che la crescita della produttività è tanto più bassa quanto più debole la crescita del PIL italiano;
  2. che a sua volta tale crescita è tanto più bassa quanto più stringente è il  “vincolo esterno” dato dall’equilibrio nei conti con l’estero;
  3. che questo vincolo esterno è reso più stringente da uno shock negativo al tasso di cambio nominale (più cara l’amata liretta in termini di valute straniere), nella misura in cui ciò si ripercuote direttamente sul tasso di cambio reale (“non è vero che i prezzi italiani crescono più lentamente di quelli tedeschi, migliorando la competitività dei prodotti italiani colpiti dal tasso di cambio diventato caro”).

Il primo passaggio nella sequenza degli argomenti (effetti negativi della domanda sulla produttività) si chiama in gergo tecnico “Legge di Verdoorn” e viene per la verità dato per scontato dal nostro Bagnai, il quale focalizza la sua analisi sui punti 2 e 3 -i quali vanno sotto il nome di “Legge di Thirlwall”– attraverso un armamentario statistico non grossolano.

Qui siamo nel mondo in cui l’andamento del reddito di un paese non dipende tanto dalla disponibilità di capitale, lavoro e dal livello tecnologico (lato dell’offerta) ma largamente dal lato della domanda, e in particolare dalla forza della domanda esterna, cioè dalla domanda per esportazioni. Dall’altro lato, bisogna badare all’andamento delle importazioni -cioè gli acquisti di beni e servizi stranieri- perché non accada che non vi siano sufficienti esportazioni per ripagarle: dunque si parla di modelli di crescita “vincolati dalla bilancia dei pagamenti” (qui una buona descrizione).

Detto banalmente: non si può nel lungo termine continuare a importare molto di più di quanto si esporti perché nessuno ti fa credito in eterno.

Ebbene Bagnai considera una versione più complicata di questo modello in cui l’Italia commercia con sette paesi (o gruppi di paesi diversi); dall’altro lato le relazioni di questo modello potrebbero subire dei cosiddetti “break strutturali”, ovvero cambiare nel tempo. Intendiamoci: non è che Bagnai decida arbitrariamente quando accadono questi momenti di cambiamento (non è mica Borghi), ma sono i dati stessi che permettono di fissare la data probabilisticamente più plausibile in cui questi break eventualmente accadono.

L’idea del modello è che -rispettando il vincolo del pareggio della bilancia commerciale- puoi crescere di più nel lungo termine se questo vincolo si allenta, e sei costretto a crescere di meno se questo vincolo si restringe.

Ad esempio il vincolo si allenta se in una certa area del mondo c’è una domanda più intensa per le nostre esportazioni, mentre una rivalutazione del tuo tasso di cambio reale implica un vincolo più stringente. Perché? Perché i prodotti italiani finiscono per costare “troppo” rispetto ai prodotti altrui.

E quando i vincoli alla nostra crescita imposti dall’equilibrio commerciale diventano più stringenti? Ciò accade soprattutto nella prima metà degli anni ’90, con il processo di convergenza verso l’Unione Monetaria Europea (pagina 17 nell’articolo).

Attenzione però che -lo ammette lo stesso Bagnai a pagina 20- più della metà di questo vincolo più stringente all’inizio degli anni ’90 è spiegato da una maggiore reattività delle importazioni al reddito del nostro paese, mentre solo un terzo è dovuto all’effetto di prezzo, cioè l’andamento del tasso di cambio reale (dentro al quale fa la parte del leone la rivalutazione del cambio nominale della lira).

Detto in altri termini Bagnai spiega l’andamento del reddito nazionale sulla base di questa teoria focalizzata sull’equilibrio della bilancia commerciale, avendo precedentemente ricordato ai lettori l’ipotesi di un legame negativo tra crescita debole e produttività stagnante (legge di Verdoorn), senza peraltro testarlo direttamente.

Personalmente sono un pacato amante delle spiegazioni multiple per i fenomeni economici e sociali, ovvero sono sempre pronto a accettare l’idea che un certo fenomeno abbia dietro delle concause, e non una causa unica, cosicché la questione principale -avendo sgombrato il campo da possibili concause che non lo sono- sta nel verificare il peso relativo delle diverse concause che concause sono.

Qui siamo in un mondo diverso che mi mette a disagio, e dovrebbe mettere un po’ a disagio pure voi: Bagnai parte dall’ipotesi che il modello di Verdoorn/Thirlwall sia vero, e identifica la versione di tale modello (più precisamente: della parte Thirlwall, cioè quella della crescita vincolata dall’equilibrio di bilancia dei pagamenti) che corrisponde meglio ai dati osservati. Pur citando all’inizio dell’articolo interpretazioni alternative a proposito delle cause della nostra produttività stagnante, in nessuna parte dell’analisi econometrica tali interpretazioni alternative sono messe a confronto con il modello preferito al fine di verificare “chi perde” dal punto di vista statistico, ovvero per quali variabili non si può rigettare l’ipotesi che non siano significativamente capaci di spiegare quel che accade.

Se su Twitter Bagnai blocca chi non la pensa come lui, nel mondo patinato delle riviste accademiche [vabbè, l’International Review of Applied Economics non è proprio patinatissima come rivista accademica ma tant’è] lo stesso Bagnai blocca le interpretazioni alternative dei dati non mettendole a confronto con i dati stessi.

Ripeto: amo le spiegazioni multiple, e dunque non ho nulla in contrario a pensare che anche la storia raccontata da Bagnai sia in grado di spiegare in parte quel che è successo, ma trovo scientificamente scadente questo modo di eliminare a priori le spiegazioni alternative.

Dentro questo modo di pensare settario, come posso difendermi dal rischio che una correlazione spuria venga erroneamente presa come dimostrazione di un legame causale? Se c’è una sola teoria da testare (cioè una sola coppia fatta da una variabile da spiegare e una variabile che spiega) nulla mi impedisce di agghindare nella maniera più caruccia possibile la correlazione stessa, dissezionando la variabile esplicativa in maniera raffinata, come fa Bagnai con il vincolo esterno alla crescita.

Tanto per intenderci: questo meraviglioso grafico ad opera dell’amico BondZilla su Twitter ci mostra chiaramente come l’andamento stagnante della produttività italiana sia spiegato dal calo nel numero di alci abbattute in Norvegia: guardate che bella correlazione! Ebbene, io potrei convincervi della bontà di questa teoria andando a dissezionare l’andamento della caccia alle alci nelle 19 diverse contee della Norvegia, per evidenziare in quali contee lo scarso abbattimento delle alci abbia fatto più male alla produttività italiana: Hordaland? Rogaland? Troms?

alci_produttività

Naturalmente in nessun punto vi ho mai dimostrato come lo scarso abbattimento delle alci CAUSI il rallentamento della produttività italiana.

Capita l’antifona?

6 pensieri riguardo “Qui smonto un articolo di Bagnai (su tassi di cambio e produttività)

  1. Forse Lei non lo farà mai per tanti ovvi motivi ma se ad un automobilista che ha bucato la gomma non gli do il crick e la chiave per cambiare la gomma deve chiamare il carro attrezzi ( che è quello che quasi sicuramente farebbe lei )
    Se ad uno stato gli tolgo la possibilità di autofinanziarsi e di gestire la propria valuta deve per forza chiamare il carro attrezzi e farsi trasportare MES o FMI che sia .
    Lei mi dirà che non bisognava bucare e io le rispondo che non dovevano esserci i chiodi per strada .
    In ogni caso il danno ora è fatto e non è che pontificare come cambiare la gomma si risolva , Lei dice di chiamare il carro attrezzi , Bagnai di cambiarla e basta , la soluzione meno onerosa secondo me è cambiarla ( sapendolo fare ) , secondo lei chiamare il carro attrezzi aspettando che arrivi e poi paga l’assicurazione , solo che il problema è l’urgenza e se lei avesse moglie e figli al sole in autostrada con la ruota bucata assetati, si preocuperebbe di togliere i chiodi eventuali per non bucare più , aspetterebbe il carro attrezzi , magari un’oretta o si arrischierebbe a provare a cambiarla ? questi sono i dilemmi della vita .

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  2. Caro Professore,

    mi sembra che Lei abbia fatto un errore. Il numero delle alci abbattute nel periodo di riferimento (e cioè dal 1981 fino al 2017) non si registrava un “calo nel numero di alci abbattute in Norvegia” ma un aumento: infatti – sempre secondo tale grafico – il numero delle alci abbattute in Norvegia era aumentato del 50 % (dal 20.000 a 30.000).

    Cerchi di stare attento, altrimenti i Suoi avversari diranno che non sa neanche leggere un grafico.

    Cordiali Saluti

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  3. Abbiamo capito quello che intendeva comunicarci. Che non basta guardare i grafici e le correlazioni che vi sono tra quelle variabili perchè non è detto che la correlazione sia anche una causa. Bisogna considerare diverse variabili soprattutto quelle omesse perchè altrimenti i lavori econometrici rischiano di essere viziati e fuorvianti. DACCORDO!!! Questo è un giusto messaggio, soprattutto verso i cultori ed appassionati della materia e per i non addetti ai lavori (per questi ancora di più). Però, intanto si deve valutare pure l’onestà intellettuale della persona che divulga certe questioni, i suoi titoli, la sua esperienza di accademico, di ricercatore in queste discipline eccetera insomma la sua credibilità. Io penso che il prof Bagnai sei la sia meritata. Non è un ciarlatano e a tal riguardo fa anche altro, argomenta le cause, i tempi, le circostanze eccetera inoltre fornisce a supporto di questa tesi anche altri paragoni. Certo, è tutto opinabile fino a prova contraria perchè gli economisti non sono ancora d’accordo su questo fatto riguardante i motivi del declino della produttività italiana. Bisogna mettersi un pò a confronto. Il problema eiste, questo è certo. Però la retorica dello Stato ladrone, della burocrazia e quant’altro è la abbiamo già sentita e diciamo che va in voga.. Ciò detto, non significa che va tutto bene e che l’apparato pubblico non debba migliorare per cercare di riqualificare ed allocare meglio la sua spesa.
    Grazie per i suoi contributi e cordiali saluti!!!!

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  4. Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la storia della teoria economica sa che la questione cambi fissi o cambi fluttuanti è subordinata ad una lista lunghissima di pre-condizioni, perché essere gli USA, la Cina, lo Zaire , l’Argentina o la Germania fa la differenza (notevole). Per 20 anni la lira si è trovata in regime di cambi flessibili, ma quasi fissi, eppure ha attraversato boom e recessioni e la produttività è cresciuta notevolmente. Nel 1992, il Governo Amato, non ha scelto la memorabile pesantissima svalutazione, ma l’ha subita! Ovvero se non esistono le giuste precondizioni interne (i conti in ordine) il cambio flessibile diventa punitivo, non pro-attivo. La repubblica cecka, per esempio, ha fatto fluttuare la corona dal 0,036 € a 0,040 (a parte l’oscillazione rientrata tra 0,046 e 0,34 durante la crisi del 2009) ma ha tenuto il debito pubblico tra il 25% e il 45% del Pil a rientrare negli ultimi anni). Ovvero ha mantenuto un equilibrio sulla base di un compromesso, una combinazione di decisioni, azioni (e spiegazioni) multiple, appunto. Per chi ha potuto manipolare qualunque modello econometrico costituito da equazioni lineari (non simultanee) risulta ovvio che esso non costituisce mai la prova di una teoria, ma solo uno strumento descrittivo … di una tra le infinite ipotesi che scaturiscono dalla combinazione di numerose variabili esogene, endogene, parametri stimati e inevitabili “fattori di aggiustamento”.
    Se poi al tutto si aggiunge il ruolo delle aspettative degli innumerevoli agenti economici … allora si entra nel campo dell’esoterismo, come dimostra la manifesta incapacità di questa strumentazione di prevedere e anche simulare eventi ben più semplici che non l’uscita dall’euro (che attiverebbe processi dinamici ricursivi matematicamente intrattabili).

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