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Che cos’è il PIL? [Prodotto Interno Lordo]

Il PIL (Prodotto Interno Lordo) è il valore totale di tutti i beni e servizi finali prodotti in un dato periodo di tempo, di solito in un anno o in un trimestre. Chi compra questi beni e servizi? Le famiglie li acquistano per i propri consumi, mentre le imprese acquistano beni di investimento (sempre beni finali sono) per rinnovare i propri impianti o aggiungerne di nuovi. Dato che l’economia è aperta ai rapporti con l’estero, le esportazioni sono gli acquisti di beni e servizi prodotti all’interno del paese ed acquistati da soggetti che stanno all’estero (famiglie o imprese) e vanno ad aggiungersi al lato della domanda, cioè a chi acquista la produzione del paese considerato. Attenzione però che al valore delle esportazioni bisogna togliere il valore delle importazioni, cioè dei beni e servizi finali acquistati all’estero, in quanto si tratta di domanda che non va a comprare beni prodotti all’interno ma per l’appunto all’estero. E infatti il concetto rilevante è quello delle esportazioni nette, cioè il valore delle esportazioni meno il valore delle importazioni.

Che dire della parte pubblica dell’economia? Se il settore pubblico acquista beni e servizi questi sono una parte aggiuntiva della domanda che in parte (ampia o stretta) acquista beni prodotti all’interno, e lo stesso vale per gli investimenti pubblici, cioè l’acquisto di beni che danno utilità (sperabilmente) per più di un periodo. Anche gli stipendi pubblici entrano nel computo della spesa pubblica che acquista la produzione interna perché sono una misura del valore dei servizi pubblici prestati alla cittadinanza, in quanto non esiste per definizione un prezzo a cui questi beni e servizi vengono scambiati.

Pensiamo ad esempio alla sanità, e al personale rappresentato in particolare da medici e infermieri. Tramite il meccanismo coercitivo delle imposte i cittadini finanziano i servizi sanitari che -in un sistema a copertura universale come quello italiano- sono gratuiti per il cittadino che ne fa uso: dunque non esiste un prezzo per i servizi sanitari utilizzati dai consumatori finali ma il suo valore è rappresentato dagli stipendi del personale, dall’acquisto di beni intermedi da parte della pubblica amministrazione eccetera.

Piccola parentesi su beni e servizi scambiati nell’economia senza pagamento di un prezzo: c’è un beneficio connesso al fatto che vengono prodotti beni e servizi che il settore privato potrebbe produrre in quantità insufficienti, ma c’è anche un costo dovuto al fatto che i cittadini non sono immediatamente capaci di verificare se “il gioco valga la candela”, cioè se il costo di produzione di questi beni e servizi sia inferiore alla disponibilità a pagare da parte loro, cioè se convenga davvero produrre quei beni e servizi. Chiusa la parentesi.

Un elemento contabile affascinante è che a ogni acquisto di beni e servizi finali corrisponde un ricavo per i soggetti che li vendono, tipicamente imprese che utilizzano queste risorse incassate per pagare stipendi, le fatture dei propri fornitori, gli interessi a chi gli presta i soldi e i dividendi a chi ha messo il capitale di rischio: dunque emerge qui l’uguaglianza tra spesa, valore della produzione e reddito (potere d’acquisto) che va a chi fornisce fattori produttivi (lavoro e capitale) alle imprese che producono.

E un concetto ancora più prezioso che entra in ballo qui è quello di circuito del reddito: come sintetizzato nella Legge di Say (colposamente o dolosamente presentata in maniera caricaturale dal famoso economista John Maynard Keynes) la domanda di beni nasce dal lato dell’offerta (cioè dal lato delle imprese e degli altri soggetti che producono beni e servizi) in quanto le imprese che vendono con successo beni e servizi danno risorse monetarie a lavoratori e capitalisti come reddito che serve a costoro per comprare beni e servizi finali, in un circolo virtuoso in cui vorremmo sempre essere immersi. E che succede se non tutto il reddito viene speso in consumi? La differenza positiva tra reddito e consumo si chiama risparmio ed è costituito da risorse monetarie che possono essere prestate alle imprese carenti di risorse interne per acquistare beni di investimento: un altro importante canale dentro il circuito del reddito complessivo.

Vi sto presentando un quadro troppo ottimistico? Non necessariamente. Pensiamo a un’impresa che produce beni o servizi per cui non c’è abbastanza domanda, dunque la produzione è inferiore alla spesa fatta su di essi. Capita forse che in questo caso si rompa l’uguaglianza tra spesa, produzione e reddito? Per niente: ciò che non viene venduto entra a far parte delle scorte delle imprese, in questo caso nella forma non gradevole di scorte non volute. Contabilmente è come se l’impresa nell’anno x vendesse a se stessa la produzione non venduta all’esterno, accumulandola come scorte da vendere nell’anno x+1 o negli anni successivi. Qui si vede chiaramente come il circuito virtuoso del reddito possa spezzarsi nel caso di imprese che non riescono a vendere quel che producono. Può capitare? Certo che può capitare. Da quando gli esseri umani sono perfetti?

Fino ad ora ho parlato di prezzi di sfuggita, senza occuparmene in maniera sistematica. Parto da un’affermazione forte: chi non apprezza il funzionamento del meccanismo dei prezzi non ha capito una beata mazza di niente di economia. Ne parlerò diffusamente un’altra volta [è una minaccia].

Qui è importante rammentarsi che il PIL è dato dal valore totale dei beni e servizi finali prodotti in un paese in un certo intervallo di tempo, e dunque i prezzi servono a “fare la somma” ed arrivare a questo valore totale, permettendo di sommare come si suol dire “le mele con le pere”, cioè il valore totale delle mele prodotte (quantità di mele prodotte per il loro prezzo) con il valore totale delle pere prodotte (quantità di pere prodotte per il loro prezzo).

Supponiamo che in un certo paese il PIL annuale valga 1700 miliardi di euro (cifra molto vicina al PIL attuale dell’Italia), ed ipotizziamo che nell’anno successivo tutte le quantità di beni e servizi finali prodotti restino inalterati, mentre i prezzi raddoppiano. Tutti i prezzi raddoppiano: una tazzina di caffè passa in un anno da 1 euro a 2 euro, un’automobile utilitaria passa da 10mila e 20mila euro eccetera. In un anno il PIL calcolato utilizzando i prezzi di ciascun anno è raddoppiato ma la domanda è una sola: è vero che il benessere totale dei cittadini è raddoppiato? Per niente, dato che per ipotesi non è cambiato nulla dal punto di vista reale: si producono esattamente le stesse quantità di beni e servizi finali, per ogni bene e servizio.

Dunque dobbiamo per forza distinguere tra il concetto di PIL nominale e PIL reale, in quanto vorremmo non farci ingannare da ciò che succede dal lato dei prezzi e illuderci che il nostro benessere totale sia raddoppiato. Come farlo? Beh il modo più semplice consiste nell’utilizzare nel calcolo del PIL di ogni anno non i prezzi vigenti in quell’anno (i cosiddetti prezzi correnti) ma i prezzi di un anno prefissato (il cosiddetto “anno base), cioè calcolare il PIL a prezzi costanti. Se calcoli il PIL in questo modo ottieni una misura del PIL reale, che è molto più rilevante del PIL nominale [con buona pace degli psicotici fissati con la moneta]. Per definizione non ti fai ingannare dall’aumento dei prezzi perché stai utilizzando prezzi fissi per calcolare il PIL (reale).

Mancano due ultimi passaggi.

Primo passaggio: se ti interessa sapere come sta andando l’economia di un certo paese, l’indicatore principale è la crescita percentuale del PIL reale nel medio-lungo-lunghissimo termine. Che cosa intendo dire? Non basta valutare quel che succede quest’anno oppure l’anno prossimo, ma bisogna guardare la crescita media del PIL reale nel giro di 5 o 10 o 25 anni: tassi di crescita in media alti -e possibilmente stabili- sono ciò che portano un paese fuori dal sottosviluppo verso il benessere.

Secondo passaggio: Il PIL reale di un paese e il suo tasso di crescita nel medio-lungo termine ci dice tutto -o quasi- sul livello e sull’andamento del benessere complessivo di un paese, ma non ci dice abbastanza su quanto in media il singolo cittadino del paese stia bene, in termine di consumo di beni e servizi finali in valore. Il secondo passaggio consiste dunque nell’effettuare un’operazione matematica estremamente sofisticata, cioè dividere il PIL reale per il numero di abitanti di un paese per ottenere il PIL reale pro capite, che è la misura migliore del benessere medio per i cittadini di un dato paese. Se vogliamo sapere quanto velocemente il benessere medio del cittadino cresca nel tempo non dobbiamo fare altro che calcolare la crescita percentuale del PIL reale pro capite, che è facilmente approssimabile con la differenza tra la crescita percentuale del PIL totale e la crescita percentuale della popolazione.

Tutto qui. 

15 pensieri riguardo “Che cos’è il PIL? [Prodotto Interno Lordo]

  1. Reitero il mio quesito qui. Sperando in una sua riflessione a riguardo. Cordiali saluti

    Il PIL è al lordo degli ammortamenti. Perché secondo lei si utilizza nel XXI secolo un indice al lordo degli ammortamenti? Ha senso?

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    1. Ha senso perchè nel Pil sono compresi gli investimenti “lordi”, cioè quelli nuovi e quelli per rimpiazzare il capitale consumato (ammortamenti); se togliessimo dal Pil il valore degli ammortamenti ci priveremmo di un indice importante per capire se stiamo investendo in maniera sufficiente per mantenere un certo livello di consumi privati e pubblici, che per essere prodotti hanno bisogno di un livello di capitale fisso sufficiente e mantenuto in buone condizioni.
      E comunque è abbastanza naturale concepire “il reddito” come qualcosa che possa essere consumata o risparmiata, cioè prima o dopo “investita”, quindi anche per rimpiazzare del capitale che si è consumato.
      Saluti

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      1. In realtà è esattamente il contrario. Poiché consideriamo ogni investimento solo come consumo non sappiamo se c’è ricambio sufficiente di investimenti, poiché non sappiamo se valore prodotto è sufficiente a mantenere investimenti e capitale.

        Ragioniamo estremizzando: immaginiamo una economia con PIL stabile attorno a 100 e PIN 0.
        Quanto potrebbe essere il prelievo fiscale medio di lungo periodo in una economia del genere?
        ZERO…

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  2. Un PIN=0 è solamente un’ipotesi matematica, quindi impossibile da calare nella realtà economica, dove abbiamo persone, con le loro specifiche esigenze per soddisfare le quali mi risulta debbano CONSUMARE qualcosa che non siano impianti, macchinari ecc.
    Il mio rilievo riguardava SOLO la tua precedente domanda: “Ha senso misurare il PIL al lordo degli ammortamenti?”, e la risposta non può che essere positiva visto che il PIL è REDDITO, e questo può viene consumato E investito (dopo essere stato risparmiato), e negli investimenti ci stanno a pieno titolo i cosiddetti AMMORTAMENTI, anzi massimamente quelli in economie “mature”, quindi ad alto rapporto capitale/reddito.
    Se poi il ragionamento diventa “un indice come il PIL è un buon/efficace/efficiente misuratore del benessere sociale medio”, allora si aprono altre discussioni sulle quali mi astengo considerata la vastità della materia.

    P.S. Perchè scrivi “consideriamo ogni investimento solo come consumo”?

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    1. PIN = 0 è una ipotesi matematica per fare capire un concetto. Presumere sia inutile poiché non si cala nella realtà è un modo come un altro per non affrontare il concetto che un simile esempio illustra: ovvero che la produzione al netto degli ammortamenti è una misura molto più realistica dell’andamento reale della economia nel medio e soprattutto nel lungo periodo.

      Ad inizio secolo ammortamenti pesavano 3-4% del PIL. Negli anni ’80 il 12% del PIL. Oggi pesano il 15-16% del PIL. Immaginiamo che la progressione continui. Una economia con un differenziale del 4% tra PIL e PIN è assai differente rispetto ad una economia con un differenziale del 16%. Una differenza nell’ordine del 12% del PIL è una enormità: vuol dire che il capitale ammortizzabile mediamente si estingue non ogni 25 anni, ma ogni 8.

      L’economia utilizza un indice concettualmente improprio per questo tempo. Un indice che sarà progressivamente sempre più improprio al crescere del peso relativo degli ammortamenti rispetto al PIL.

      P.s. Perché è esattamente ciò che fa il PIL. Il PIL, non sottraendo al conteggio dei valori aggiunti ammortamento tratta l’ammortamento sostanzialmente come un qualsiasi altro consumo. Vi è qualche cosa di profondamente insulso e di profondamente sbagliato nel fare ciò a mio modesto avviso: per questo ho chiesto una riflessione a riguardo.

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  3. Domanda da ignorante, scusate… Ma se un’azienda acquista 100 euro fra beni, servizi e forza lavoro e vende 100 euro di valore come prodotti, quanto ha contribuito al PIL? E se uno stato riceve 100 euro di tasse e paga 100 euro per erogare servizi ai cittadini?

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  4. Devi togliere dal valore della produzione i consumi intermedi, cioè quanto ha acquistato da altre aziende in beni e servizi (consumati nella produzione); quindi se l’azienda ha consumato 50 x beni e servizi acquistati “da fuori” il suo valore aggiunto sarà di 50 (100 di fatturato – 50 di CI). Per la seconda domanda, cioè se lo stato spende 100 e preleva 100 penso che il “contributo” al PIL sia zero, a meno di non considerare effetti moltiplicativi della redistribuzione del reddito (investimenti, sussidi ecc.).

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